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In età prescolare i bambini non dicono bugie perché non hanno la volontà di ingannare come l'adulto. E' più corretto parlare di 'piccole storie' ed è un atteggiamento sano perché dimostra un'aspirazione all'autonomia e una volontà diversa da quella dei genitori. Parola di Paola Scalari, psicologa e autrice del libro Parola di bambino. Il mondo visto con i suoi occhi.

di Marzia Rubega

Nella top ten delle convinzioni comuni più gettonate sulla presunta 'natura' del bimbo piccolo (spesso dipinto come un mostriciattolo che tiranneggia in ogni modo l'adulto) si piazza in una buona posizione l'idea che sia 'furbetto'. Bugiardo, insomma, già in età prescolare.

'Eheh, sono furbi fin da piccoli, signora mia, bisogna fare attenzione!'

'Non c'è da credere ai racconti di un bambino, di sicuro, non dice la verità!'

A ogni genitore sarà capitato, almeno una volta, di essere messo in guardia da una flotta di 'esperti' - parenti, vicini di casa, nonne, zii, signore con figli – sulla (perniciosa!) tendenza a mentire dei più piccoli.

Ma allora, i bambini raccontano davvero (intenzionalmente) un mare di bugie?

In realtà, non è giusto definire 'bugie' i racconti dei bimbi in questa fascia d'età perché non sono animati dalla volontà di ingannare, diversamente dall'adulto che dice, invece, una frottola in modo consapevole.

A spiegarlo è Paola Scalari, psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista e autrice prolifica. L'ultimo lavoro, con Francesco Berto, è Parola di bambino. Il mondo visto con i suoi occhi, La Meridiana, che approfondisce anche questo tema.

"Di fatto, è più corretto chiamare quello che dicono i bambini 'piccole storie' e non bugie. Il bimbo in età prescolare cerca di passare dalla dipendenza verso il genitore, tipica dei primi anni di vita, a una graduale autonomia anche attraverso il sotterfugio. Raccontare storie dimostra la sua volontà distinta da quella dell'adulto", dice la psicologa.

Il mondo dei bimbi è dominato dalla fantasia e senza tempo

Lo stesso episodio, raccontato da un bimbo risulta, spesso, diverso dalla 'versione' che ne darebbe un adulto, ma questo non sottintende il desiderio di ingannare volontariamente l'interlocutore. Occorre anche tenere ben presente che i confini tra realtà e fantasia sono ancora molto labili.

Non a caso, quando si chiede, per esempio, a un bimbo di tre-quattro anni cosa ha fatto il giorno precedente, la risposta può variare da un serafico 'niente' alla meticolosa descrizione di un divertente pomeriggio di due mesi prima.

La connessione temporale non appartiene al mondo dei piccoli che vivono in una sorta di 'qui-e-ora', dove spazio, tempo e relazioni sono 'distillate' tra sensazioni emotive e corporee.

Secondo lo psicologo e pedagogista svizzero J. Piaget, in sostanza, prima dei sei-sette anni, la mente dei bimbi è dominata dal pensiero magico: la realtà, cioè, si mescola alla fantasia senza alcuna connessione logica.

Il bimbo dice 'bugie? Allora è intelligente e autonomo.

Le storie dei piccoli e la loro interpretazione di episodi quotidiani sotto il segno dell'immaginazione, costituiscono una tappa fondamentale della crescita e dello sviluppo cognitivo.

"I racconti dei bimbi rappresentano il preludio a due aspetti a cui ogni genitore, di solito, tiene molto: intelligenza e autonomia – dice la psicologa Scalari - Raccontare storie, infatti, è indice di intelligenza e, allo stesso tempo, è un modo per affermare se stessi nel cammino verso una maggiore autonomia".

Il genitore, quindi, dovrebbe accettare le piccole storie del bimbo in età prescolare come una sorta di faro delle sue capacità. Le sue storie non sono una manipolazione della realtà come quella che può effettuare l'adulto - dice la psicoterapeuta.

Le 'piccole storie' sono un modo per sottrarsi alla dipendenza dalla mamma

Naturalmente, a volte, un genitore può restare perplesso davanti alle 'uscite' (piene di candore) di un bimbo di due-tre anni che nega, per esempio, di avere mangiato la cioccolata, con la faccia tutta sporca.

Anche in questo frangente, la storia ha valore per la crescita perché "crea lo spazio separato abitato dal figlio e dal genitore – sostiene Scalari -. Le storie, infatti, sono anche un modo per sottrarsi alla dipendenza genitoriale".

Ma in una situazione del genere, come dovrebbe comportarsi l'adulto?

"In un caso simile – spiega Scalari - la mamma dovrebbe ascoltare con attenzione il bambino. Non ha invece senso domandargli: 'Perché hai detto che non sei stato tu a mangiare la cioccolata?'

Se per lei non è una cosa buona che il bimbo non ammetta di averlo fatto, dovrebbe rivolgersi al piccolo in terza persona, raccontando, a sua volta, un'altra storia.

'Ah, davvero, non è stato Carlo a mangiare la cioccolata, ok, ho capito, è stato Carletto che è un bimbo più grande e un po' furbetto e molto goloso!'.

Con questo tipo di approccio, il genitore può educare il bimbo, passandogli un messaggio ma senza uccidere la sua creatività e voglia di indipendenza", dice la psicologa.

Le prime 'vere' bugie compaiono intorno ai sei anni

Con l'ingresso alla primaria, intorno ai sei anni, il discorso cambia. Spesso, quando la mamma chiede al figlio, 'Cosa hai fatto oggi a scuola?', una risposta tipica è 'Niente!'.

'Ma la maestra ti ha detto qualcosa? 'No, niente!'.

Questo è un 'botta e risposta', noto a quasi ogni genitore, che segna una nuova fase e una percezione diversa del bimbo del mondo reale, molto più simile a quella dell'adulto.

"In questa fascia d'età, quando un bimbo racconta qualcosa che non corrisponde a quanto accaduto realmente, compare l'intenzionalità", dice la psicologa. Ma anche in questa nuova fase è importante non bollare il bimbo come un impenitente Pinocchio senza tenere in considerazione cosa lo muove.

In questo periodo, come spiega la psicoterapeuta, la bugia nasce, principalmente, da due direzioni: la ricerca di approvazione e il desiderio di indipendenza.

Il bambino non vuole deludere il genitore

Il primo aspetto, da cui scaturisce la bugia, è dettato dal desiderio del bimbo di essere proprio quello che vogliono i suoi genitori. In altre parole, ci tiene a dare un'immagine più bella di se stesso: la bugia, dunque, gli serve per non deludere mamma e papà.

"Per lui l'approvazione è così importante che nasconde alcuni aspetti della sua indole e indossa una maschera sorretta dalla bugia, - dice la psicologa - Ha troppa paura di deludere il genitore, il pensiero di leggere la disapprovazione, per esempio, nello sguardo della mamma è insopportabile".

"Dico le bugie per fare bella figura"

"La bugia è un'arma di difesa che i bambini hanno per poter combattere contro i grandi"

"Io in mensa non volevo mangiare il formaggio. Allora l'ho messo nel contenitore e l'ho portato a casa. Alla maestra ho detto che l'avevo mangiato tutto perché era buonissimo. E mi ha detto brava perché credeva che avessi mangiato tutto"

(Pensieri di bambini dei primi tre anni della scuola primaria sulle bugie raccolte da uno degli autori, F. Berto, tratte dal libro Parola di bambino).

Una bugia può rappresentare una via d'uscita alle ansie dei genitori

L'altra grande motivazione di fondo che spinge un bambino grandicello a raccontare bugie è quella di sottrarsi al controllo invasivo dell'adulto. "Il bimbo si sente assediato dai genitori, dalle loro pretese, attese, ansie e così si costruisce un paravento per vivere un po' di autonomia", dice Paola Scalari.

Se, per esempio, il bimbo decide di andare a scuola in bici ma sa che la mamma non gli avrebbe dato il permesso, eviterà di parlarne. Alla domanda: 'Ma oggi sei andato a scuola a piedi?', dirà semplicemente 'sì'.

In questo caso, la frottola nasce a causa del 'divieto' (magari imposto per un eccesso di ansia) che al bimbo va troppo stretto. "Con la bugia, si crea la sua libertà ma si assume anche la responsabilità di stare attento in bici, perché se succede qualcosa e lo 'sgamano', poi non ci va più", dice la psicologa.

Di frequente, l'adulto cerca di avere un controllo totale su ogni aspetto della vita del figlio e questo può spingerlo alla ricerca di una 'via di uscita', la bugia, per ritagliarsi degli spazi di manovra (e autonomia).

La mamma, per esempio, chiede al bambino se ha mangiato la merendina, e lui conferma. In realtà, l'ha data alla sua compagna di banco di cui è innamorato ma non lo vuole raccontare.

"La mia mamma ha la mania di farmi lavare mille volte al giorno le mani, il viso, le ginocchia e anche i denti. Io mi stufo e allora le dico sempre che mi sono lavato anche se non è vero perché piace anche a me essere un po' sporco come i miei compagni"

"Delle volte la bugia serve per poter tenere segrete le nostre cose"

(Pensieri di bambini dei primi tre anni della scuola primaria sulle bugie raccolte da uno degli autori, F. Berto, tratte dal libro Parola di bambino).

Una buona regola per il genitore? Ascoltare e mediare

Quando il bimbo in età scolare non dice la verità come nel caso della bici, secondo l'esperta, il genitore che lo scopre, dovrebbe sorridere. ascoltare suo figlio e cercare di capirlo.

Dietro a ogni bugia raccontata da un ragazzino in età scolare, con un po' di attenzione e disponibilità all'ascolto, l'adulto può cogliere ragioni, desideri nascosti e aspirazioni del figlio. E quasi sempre, basta poco per trovare insieme una soluzione.

Tuttavia, non è per tutti così immediato sforzarsi di capire le motivazioni del bimbo mantenendo la calma. Perché c'è chi carica di valore negativo, un episodio del genere, che è una tappa della crescita?

Secondo la psicoterapeuta, le mamme, spesso, hanno paura di fronte a una bugia, si sentono mettere fuori dalla porta dei figli ('ma come? Chi lo conosce meglio di me?') e questo porta a un senso di ansia da esclusione.

Se per il genitore la bugia del bambino non è accettabile, per l'autrice, la via migliore è quella della mediazione.

"È importante mediare la libertà del bambino, dargli più autonomia, magari dicendo: 'Non mi piace che vai in bici da solo, è molto meglio in compagnia!'. Certo, in ogni caso, la sgridata non è la modalità giusta, e la tipica frase, 'non si dicono le bugie!' stop, non porta a nulla, non ha senso.

Tra l'altro, è negativo che un bimbo non racconti le sue 'piccole storie', insomma non è un valore non dire bugie, dice Paola Scalari.

La bugia prepara, poi, quello spazio che nell'adolescenza diventa il segreto, la capacità di tacere e ragionare con la propria testa. A volte, non si può dire tutto, è importante per le relazioni future anche saper tacere", conclude la psicologa.

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Paola Scalari
è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG e di Teoria e tecnica del gruppo operativo in ARIELE psicoterapia. Docente Scuola Genitori Impresa famiglia Confartigianato.
Socia di ARIELE Associazione Italiana di Psicosocioanalisi. E’ consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe per enti e istituzioni dei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
Cura per Armando la collana Intrecci e per la meridiana la collana Premesse… per il cambiamento sociale, ed è consulente delle riviste Animazione sociale del gruppo Abele, Conflitti del CPPP, Io e il mio Bambino, Sfera-Rizzoli group.
Nel 1988 ha fondato i "Centri età evolutiva" del Comune di Venezia per sostenere la famiglia nel suo compito di far crescere i figli e si è occupata della progettualità del servizio Infanzia Adolescenza della città di Venezia.
Insieme a Francesco Berto ha recentemente pubblicato per le edizioni La Meridiana: "Adesso basta! Ascoltami. Educare i ragazzi al rispetto delle regole." (2004), "Fuggiaschi. Adolescenti tra i banchi di scuola." (2005), "Fili spezzati. Aiutare genitori in crisi, separati e divorziati." (2006), "ConTatto. La consulenza educativa ai genitori." (2008), "Padri che amano troppo." (2009), "Mal d'amore. Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative." (2011), "A scuola con le emozioni - Un nuovo dialogo educativo" (2012), "Il codice psicosocioeducativo" (2013), "Parola di Bambino. Il mondo visto con i suoi occhi." (2013).

Educare è insegnare ad avere fiducia nel mondo che verrà, a investire positivamente le proprie capacità, a sognare e faticare per realizzare le proprie speranze di vita. Una scuola attiva, formativa, lo sa.
La scuola attiva e formativa è la scuola che tutti noi vorremmo avere per i nostri bambini e ragazzi ma sembra essere lontano anni luce da quello che incontriamo quotidianamente. Prevale una lamentazione diffusa: insegnanti che si lamentano della famiglia dei propri alunni, genitori che difendono tout court i figli e non sembrano comprendere la necessità di un apprendimento basato su aspetti cognitivi, cooperativi ed emotivi. Si trova tanta demotivazione e ancor più rassegnazione, al punto da creare una sorta di imprinting alla rassegnazione anche nei bambini.
Questo libro, curato da Paola Scalari e scritto da insegnanti, pedagogisti, psicologi ed educatori ha il compito da un lato di fare una fotografia critica del presente, dall'altro di proporre buone pratiche per una scuola dell'oggi e del domani. Le buone pratiche sono basate su teorie consolidate ma non ancora applicate in maniera sistematica e consapevole: Bauleo, Pagliarani, Bleger, Freinet, Milani e, per citare il mondo attuale, Canevaro e Demetrio.
Si tratta di pratiche che tengono conto della possibilità di costruire una scuola che aiuti a pensare, dialogare, dar forma. Una scuola basata sull'ascolto, su modalità cooperative, dove bambini e ragazzi possano sentirsi liberi di esprimersi ma anche di prendersi responsabilità in base alle loro competenze. Una scuola che sa mettersi in relazione con i bambini e che sa creare basi per una coesione tra adulti che condividono l'educazione dei figli e degli allievi.
A scuola con le emozioni è rivolo agli insegnanti e ai genitori, ma anche a educatori e psicologi. Com'è il mondo visto con gli occhi del bambino? E' una domanda a cui dovrebbero saper rispondere soprattutto gli educatori dei bambini (oltre che i genitori, auspicabilmente), le maestre e i maestri di vari livelli, coloro che sono impegnati a far crescere i piccoli, ad indicare loro la strada per diventare adulti, per imparare a vivere. Una bella risposta alla domanda è contenuta nel libro "Parola di bambino" scritto da Paola Scalari e Francesco Berto, edizioni la meridiana (premesse... per il cambiamento sociale). La collana, per altro, è curata dalla stessa Paola Scalari che venerdì 14 alle 18 sarà alla libreria Einaudi di Trento in piazza della Mostra.

"Il conflitto che i bambini esprimono con le loro paure richiede l'amore di tutta la nostra intelligenza", scriveva lo psicanalista Luigi Pagliarani negli anni Novanta. Fondatore e presidente di ARIELE (Associazione Italiana di Psicosocioanalisi), Pagliarani, ha lasciato una profonda traccia del suo pensiero tanto che, molti dei suoi, allievi, ora psicanalisti e psicoterapeuti, hanno costituito la Fondazione a lui dedicata (www.luigipagliarani.ch). Fra questi Carla Weber che, venerdì 14, sarà in conversazione con Paola Scalari, co-autrice del libro. Suddiviso in quattro parti, "Alfabetizzazione sentimentale" la prima, "Chiamale emozioni" la seconda, "Il legame familiare" la terza e "Immagini spontanee, volare in alto" la quarta, "Parola di bimbo" non racconta, evoca, "mobilita cioè, poeticamente, la condizione di figlio che è l'elemento unificante l'umanità". Per gli studiosi che fanno riferimento a Luigi Pagliarani, gli autori del libro e coloro che fanno parte dell' associazione "Ariele", oltrecché della Fondazione, "la possibilità di ogni bambino di costruire un buon legame con sé stesso e con il mondo esterno va iscritta nei rapporti tra genitori, nei vincoli tra famiglie, nel tessuto vitale di un territorio, nell'attenzione creativa del mondo scolastico e nelle buone offerte del tempo libero". Sostengono gli autori del libro che "un adulto significativo nella crescita dei minori sa rimanere in contatto con la parte piccola, sensibile, fragile, incompiuta di se stesso". Solo così è possibile riconoscere ed identificarsi con le fatiche emotive dei bambini e aiutare il piccolo a "mettere in parole le emozioni". Non un percorso facile perché presuppone, da parte dell'adulto, la capacità di instaurare un livello comunicativo fra sé e il piccolo, visibile e invisibile, fra la mente di chi è già formato e la psiche di chi deve ancora formarsi. Una sfida bella, premessa necessaria per un mondo umano più equilibrato e meno sofferente. Il libro è il risultato di una ricerca sul campo fatta con i bambini e, nelle pagine sono contenute anche le loro osservazioni, le riflessioni su alcune questioni poste dall'educatore. Una postfazione di Luigi Pagliarani contribuisce a centrare ancor più il tema perché i due verbi da coniugare in ambito educativo sono "allevare e generare. Il grande - che sa ed ha - con l'allevare dà al piccolo quel che non sa e non ha. Qui c'è una differenza di statura. Nel generare questa differenza sparisce. Tutti contribuiscono a mettere al mondo, a far nascere quel che prima non c'era...". Un libro utile a educatori, genitori e adulti che vogliano rapportarsi con successo con i piccoli.